CREMONA Il Grande Fiume è lì, ad un soffio. Eppure, Cremona è e rimane città di terra. Solida, concreta, ottimista. Meno mutevolmente acquatica della vicina Mantova, meno aristocratica della consorella Piacenza, meno ostentatamente ambiziosa della rivale Brescia. Un centro storico che vive e pulsa in armonia con la campagna circostante, al ritmo di una vita ancora a misura d’uomo, fatta di radici così profonde da non rischiare il gelo, ma anche di sogni costruiti mattone su mattone, resi possibili dal tenace lavoro che la Pianura insegna e impone. Qui, da 40 anni, la memoria del divino Claudio è tassello fondante di un’identità collettiva, orgogliosa condivisione internazionale di una familiarità con la propria storia masticata sin dalla tenera età. Qui, Monteverdi non è insomma solo uno slogan buono per gadget da propinare a turisti di passaggio, ma autentica occasione per appropriarsi. o riappropriarsi delle chiavi di lettura di un territorio, indagato nella sua prospettiva storica, culturale, ideale.
Lo scorso 25 giugno, quelle chiavi sono state simbolicamente consegnate a Sir John Elliot Gardiner, cittadino onorario di Cremona e custode del suo tesoro musicale, nonché acclamato protagonista del trionfale appuntamento di chiusura del Festival Monteverdi. Ma, insieme alla figura eccellente del direttore inglese, da tempo ospite irrinunciabile della manifestazione, a rendere preziosa questa edizione a cifre tonde è stata l’intera architettura di appuntamenti che si sono succeduti nell’arco di nove intensi giorni, richiamando a sé migliaia di persone da tutto il mondo. I 380 anni dalla morte del compositore, avvenuta a Venezia nel 1643, hanno voluto indagare, con ancor maggior profondità, la straordinaria figura monteverdiana nella complessità del suo tratto, attraverso una serie di appuntamenti eccellenti, corredati da un’altrettanto fitta costellazione di ulteriori momenti di ascolto. Pagine emblematiche giustapposte a vivaci contaminazioni, incursioni accostate a sguardi “clandestini”, hanno costituito il ricco menu di un Festival che, insieme al suo più illustre cittadino, ha celebrato la vivida, gaudente, multisensoriale bellezza di un’intera città. Certamente, il suggello dell’ultima serata, affidato all’articolazione adamantina del Monteverdi Choir e agli splendidi componenti dell’English Baroque Soloist diretti da Gardiner, in un programma intento ad esplorare il Monteverdi sacro, con un grappolo di pagine tratte dalla Selva Morale e Spirituale – con lo struggente Pianto della Madonna sopra il Lamento di Arianna, SV 288 – e culminante nella Messa in sol minore a 4 voci da cappella, SV 190. Ma anche, elegantissima nella firma registica di Pier Luigi Pizzi, un’Incoronazione di Poppea che ha riportato il grande teatro barocco al Ponchielli. Affidata alla sapiente conduzione di Antonio Greco, alla testa dell’Orchestra Monteverdi Festival – Cremona Antiqua, la celebrazione dell’Amore che sconfigge Fortuna e Virtù ha trovato, ad esaltarne le olimpiche geometrie, un cast di interpreti di prim’ordine. A partire dalla classe straripante di Roberta Mameli, Poppea sensualissima e mai volgare, spregiudicata senza mai farsi inghiottire dall’avidità delle proprie mire, capace anche di ripiegamenti di straordinaria introspezione, come si conviene ad un dramma che ruba autenticità alla vita. Con lei, con la sua statuaria bellezza fatta di corpo, voce, sguardi, detti e soprattutto non detti, ad intrecciarne la vocalità brunita, il Nerone altrettanto duttile di Federico Fiorio, smagliante nella tecnica quanto nello smerigliare il tondo di un personaggio anch’esso sottratto al macchiettismo. Applausi anche ai valorosi comprimari: la drammatica Ottavia di José Maria lo Monaco, il magnifico Seneca di Federico Domenico Eraldo Sacchi, l’ingenuo Ottone di Enrico Torre, l’austera Arnalta di Candida Guida e, strepitosa anche per presenza scenica, la Nutrice di Danilo Pastore. Quasi quattro ore di musica, con platea e galleria al completo nonostante l’afa padana. E l’incanto di una scrittura in cui già tutto è detto sull’amore, sul potere, sul mutevole, misterioso equilibrio che governa le umane passioni, sull’inafferrabile malinconia che, della pura gioia, è inalienabile contraltare, come ben sottolineava la conclusiva “Pur ti miro” con cui i due amanti, ormai appagati, si apprestano a tramutare l’adrenalina del loro bruciante desiderio in quotidiana, più rarefatta pienezza. Sul palco, e ancor più in buca, il mercurio vivo di una scrittura inafferrabile, complessa, ardita. Audace nell’alludere all’amore – sia esso sesso, potere, sogni, desideri, utopia, umana giustizia – quanto nell’osare soluzioni armoniche ed espressive ancora capaci, come e più di allora, di creare il brivido del vuoto, di sorprendere nella continua mobilità del loro filato. Eccola, veniva da pensare, la porta sul XVII secolo, sull’irrompere della complessità, del teatro come plateale espressione degli affetti, loro maschera e insieme snudamento. Un pennino affilato ed infallibile, quello del divin Claudio, ad ordire un arazzo sottilissimo e sontuoso al tempo stesso. La sera prima, nello scrigno della Chiesa di S. Agostino, l’incanto si sommava all’incanto della rievocazione della Prima esecuzione, avvenuta una sera del Carnevale veneziano del 1626, nell’abitazione di Girolamo Mocenigo, del “Combattimento di Tancredi e Clorinda” affidata alla tiorba e direzione di Michele Pasotti, magnifico traghettatore dell’altrettanto valoroso ensemble “La Fonte Musica”. Qui, forse ancor più e ancor prima che in ogni altro momento, si evinceva la genialità di Monteverdi come Maestro sommo dell’istante. Uno spettacolo “non più visto né udito”. Pagine filiformi, gravide di pathos, consegnate alla voce che raduna parola – quella vertiginosa ed ermetica del Tasso – e suono, messaggio e affetto, ma che già ammicca alla scena, ad una già annunciata drammaturgia. Tutto è già qui, in nuce, in respiri vivi, accesi, pulsanti, incastonati in pagine dallo scavo introspettivo già pronunciato, disarmante per bellezza e verità, nella trepidazione di una prima assoluta che, quasi quattro secoli dopo, non smette di turbare, perfetta trasfusione di un pennino che conosce a fondo l’umano, i suoi tormenti, i suoi languori. Intrecciato a deliziose pagine dei coevi Salomone Rossi, Dario Castello e Biagio Marini, il Combattimento – vertice e snodo nell’Ottavo libro dei Madrigali – rievocava nel suo turbine emotivo il cozzare di scudi ma anche i sospiri e i tormenti del cuore: stilettate, invettive, sussulti, slanci, ma soprattutto il senso della fine. Eccola, tra il Po e l’Adriatico, la Padania Felix, terra di corti e di ineguagliate committenze, di spiriti liberi e straordinariamente visionari; emblema di un tempo in cui la musica parlava al presente e traduceva il presente in un’eternità senza tempo. Davvero, come sottolineava, geniale, lo slogan del Festival, non c’è Verdi senza Monteverdi. E insieme a Verdi, senza Monteverdi non ci saremmo neppure noi.
Elide Bergamaschi