SPECIALE SANREMO La benedizione di don Fiorello ad Amadeus

SANREMO Il dubbio amletico ce lo porteremo dietro fino alla prossima edizione: è stato il Sanremo di Amadeus o di Fiorello? La cosa certa è che “don Fiore” è stata una benedizione per Amadeus, che sognava di condurre la kermesse canora allo stesso modo in cui Alfonso Signorini bramava dalla voglia di mettersi al timone del Grande Fratello. Del resto come dargli torto: Sanremo resta incontrovertibilmente il rituale collettivo simbolo della tradizione Rai, dove spesso il buon conduttore si limita a regolare il traffico dell’Ariston inzeppato di ogni possibile ospite e divagazione. E così se nella serata inaugurale la prima “big”, Irene Grandi, è salita sul palco alle 21.44, nella seconda per vedere Piero Pelù abbiamo dovuto aspettare le 22.06. La conferma che la gara è ormai relegata a puro contorno. A volte ci chiediamo cosa ci spinge a sciropparci cinque serate fino all’una (se va bene), ma alla fine prevale sempre la forma di rispetto per la commemorazione nazional-popolare con la quale siamo cresciuti e che proprio quest’anno spegneva le 70 candeline. Amadeus aveva promesso uno show «imprevedibile, capace di stupire». Missione compiuta e bis – se lo vorrà – assicurato. Invero il Festival aveva stupito ancor prima di iniziare per la quantità industriale di polemiche che lo avevano accompagnato. Al di là dell’assurda accusa di sessismo per un complimento goffo alla modella Francesca Sofia Novello, le proteste più robuste avevano riguardato la presenza di Junior Cally, “raffinato” rapper mascherato che odia Salvini e Renzi e ha una concezione da rabbrividire delle donne (ascoltarsi “Strega” del 2017 per credere). Qui non si tratta di non capire le metafore estreme in uso nel mondo del rap, ma di respingere una inutile trivialità intrisa di stupidità. E come ha giustamente osservato Mara Maionchi, considerato che Cally fa così il cattivo e il trasgressivo, perché va in una manifestazione canora nazional-popolare? Parentesi chiusa. Ad Amadeus va dato atto di aver trasformato l’Ariston in un villaggio vacanze tra gag e risate che ha saputo mettere al centro importanti tematiche sociali, in primis i femminicidi. Ma anche di aver introdotto una novità interessante: ripristinare la serata delle cover che, per la prima volta, hanno fatto punteggio insieme alle canzoni in gara inedite. Tema dominante delle canzoni non è più l’amore, ma i rapporti di sangue. Tutti sono arrabbiati. E come dare loro torto visto l’andazzo generale. Ma lo share, segnato da una media di 9,5 milioni a serata (ancora non abbiamo i dati di sabato, ndr), fa passare tutto. Il 53.3% centrato venerdì sera ha rappresentato la miglior media per la quarta serata dal 1999 (la prima parte, dalle 21.35 alle 23.54, ha raccolto 12 milioni 674mila telespettatori con il 52.3% di share; la seconda, dalle 23.58 all’1.59, ultimo minuto monitorato da Auditel – ma lo show è finito intorno alle 2.20 – ha avuto 5 milioni 795mila con il 56%. Chi per anni insisteva nel dire che il Festival andava “svecchiato” è stato accontentato. Adesso, però, non nessuno avrà di che lamentarsi se ad ogni edizione sarà sempre più nutrita la schiera di giovani canterini provenienti dai talent e dalla trap. Ma checché se ne dica, la commemorazione della canzone italiana, riesce ad emozionare quando ad esibirsi sono gli Al Bano e Romina, gli Zucchero, i Massimo Ranieri, i Ricchi e Poveri (tornati in quattro) e Rita Pavone, addirittura in gara in versione rockstar. Dato che tutto è stato pressoché perfetto, vogliamo trovare il pelo nell’uovo. Non l’aver invitato Iva Zanicchi, unica ad aver trionfato per tre volte al Festival e fresca di compleanno, e Peppino Di Capri (due vittorie), che festeggiava i cinquant’anni di carriera è stata una mancanza che poteva essere evitata. Detto ciò, ammettiamo di aver visto uno spettacolo che certamente ci mancherà. Perché alla fine… Sanremo resta Sanremo.

Matteo Vincenzi