“Simon Boccanegra” spartano, ma estremamente affascinante

PARMA Senza scene, non ci sono appigli. Solo la musica, e la parola fatta canto. A Parma, il Simon Boccanegra che conclude l’avvincente maratona di questo Festival Verdi ha ad avvolgerlo il solo fondale giallo acido che aveva ospitato il cenotafio di Gustavo III, così come lo aveva voluto Graham Vick quando aveva concepito il progetto di regia per Un ballo in maschera. La morte in posa, la vita lì a vegliarla. Là, un regicidio, qui l’inabissarsi inesorabile della vita nelle ombre lunghe della notte, del dolore che conduce al riposo eterno. Eppure, nella direzione di Michele Mariotti alla testa dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, nulla manca. La drammaturgia è lì, in quel teatro di destini ed anime, grovigli di rancori ed amori macerati nel tempo che Verdi dispone nelle sue micidiali macchine drammaturgiche. E c’è il mare. Quello visto da terra nel prologo, insieme invitante e sfuggente nella notte di una Genova immersa nell’oscurità in cui covano vendette e complotti. Quello inebriante del primo atto, pronto a sussultare di echi e di vibrazioni, a fremere di irrefrenabile commozione nel dialogo tra Boccanegra ormai doge e la ritrovata figlia Amelia-Maria. E quello dell’atto finale, della resa dei conti, dove tutto torna là dov’era iniziato. Ma nel pungolo a cui il giovane direttore pesarese ci ha abituati negli anni c’è molto di più. Il suo, sin dal marezzare delle prime note, è un lavoro certosino sulla luce e, per contro, sulle ombre che la abbracciano; sulla trasparenza della pagina snudata, a cercare colori diversi, accenti diversi in ogni battuta, in ogni scambio. Perché Verdi, e questo Verdi in particolare, è così: uno scandaglio nelle pieghe infinite della solitudine dell’uomo, ancor più se di potere, un racconto di silenzi e non detti, di sospetti, di rovelli. Del passato che riaffiora con i suoi fantasmi ed i mai sopiti desideri di ricomporre il sogno di un’agognata serenità. Quella con la compagine bolognese è un’intesa di lunga data che Mariotti sfrutta appieno; chiede all’orchestra di farsi parola, commento, chiosa. Quando il coro chiede “E i Fieschi?”, il “Taceranno” di Paolo Albiani trova negli archi l’eco sorda di un pugnale che spegne; quando giunge l’annuncio dell’elezione di Boccanegra a doge le campane a festa hanno l’assordante, disperata durezza di una sentenza che paralizza. Nella scena della maledizione poi, prima del deflagrare michelangiolesco degli ottoni, la sottile ragnatela del clarinetto basso (da applausi!) è una lama di puro panico che si fa largo nell’immobilità paralizzata della scena. E al coro – quello del Comunale, ahinoi lontano, per plasticità, capacità di insinuazione, puntualità, dall’orologio svizzero della compagine a cui Martino Faggiani ci ha abituati – Mariotti chiede di farsi pervasiva presenza dell’eco del mondo, un mormorio ora lontano ora selvaggio, pari a quello delle onde. Un mare di voci, commenti, giudizi. Un mare di veleno. Chi sa inserirsi in questa lettura così trepidante di umanità e sofferenza è Michele Pertusi, gigante senza tempo di eleganza ed autorevolezza. Il suo Fiesco è una lezione di scavo inesausto sulla pagina, umilmente interrogata come si fa con la verità racchiusa in una preghiera. Un padre dal cuore inaridito ma troppo nobile per cedere alla tentazione della vendetta. Di fronte a sé, trova il Simone pugnace e mirabile di Igor Golovatenko, un fiume in piena di vocalità virile e corposa, morsa da un continuo fremito che ne screzia di sincera inquietudine, di accorata bellezza, gli accenti, accompagnandone via via l’istintivo amor di battaglia verso una più pacata saggezza. Il loro, prima di diventare l’inatteso suggello di una riconciliazione dolcissima ancorché estrema, è un testa a testa in cui si consuma un rancore aspro ed inestinguibile tra due generazioni sorde l’una all’altra. Un duello tra titani. Angela Meade è un’Amelia superba, equidistante tra l’innocenza e la consapevolezza, dal timbro rotondo e morbido. Peccato una dizione mai limpida ed un vibrato eccessivo. Il Gabriele Adorno tratteggiato da Riccardo della Sciucca convince per raffinate finiture ed eroico piglio di giovane quanto ingenuo nobiluomo, seppur con qualche difficoltà nel controllo del registro acuto; il perfido Paolo Albiani trova la giusta tinta, tra ruffianeria e cinismo, nell’interpretazione di Sergio Vitale. Ottimo r puntualità e perfetto colore peanche il Pietro di Andrea Pellegrini. Due sole recite in programma. Una, trionfale, andata in scena lo scorso 9 ottobre, la prossima sabato 16. Chi può vada, approfittando del promettente riaprire dei teatri a capienza piena. Chi non può, ne assapori la bellezza comodamente seduto nel teatro di casa propria, accedendo alla piattaforma di www.operastreaming.com. Anche da qui, impossibile non respirare il profumo della marina brezza.

Elide Bergamaschi