parma “Un fine dicitore”. Stefano Rogledi, una vita spesa tra tasti e corde, tra feltri e ghisa, a preparare il terreno all’incanto della musica – sua era, anche questa volta, la firma al lussureggiante Steinway della pregiata scuderia Fabbrini – non poteva trovare parole più esatte per condensare, in un motto, l’essenza di Pierre Laurent Aimard. Lo scorso 6 novembre, ospite della preziosa rassegna “Traiettorie”, il pianista francese tornava di nuovo a Parma, in un Teatro Regio in cui, a notarsi, erano soprattutto le poltrone e i palchi vuoti. Un’occasione persa, in una città con ambizioni da capitale della musica; per un impaginato di rara pregnanza, ruotante attorno ai cardini di un Novecento tutto transalpino ma, ancor prima, per un interprete la cui statura finisce sempre per smorzare, ancora in bocca, l’inutile rumore di ogni commento. Perché era ad ascoltare che ci invitava, tutti noi, sparpagliati chi qua chi là, seguendo e inseguendo le direttrici nette e insieme imprevedibili della sua fantasia visionaria, obbedendo ad un dettato che era insieme gesto e pensiero, alchimia e poesia. Nascosta da una sobrietà da signore d’altri tempi, pagina dopo pagina affiorava la figura, etica ancor prima che estetica, di un trasvolatore totale e totalizzante, instancabile maratoneta di quattro secoli di musica, da Bach a Stockhausen, da Sweelink a Boulez. Ed era proprio Boulez la cuspide di un percorso pensato per cerchi concentrici, per dilatazione, avviato dalla figura del patriarca Messiaen, con Le traquet strapazin, uno degli esemplari estratti dall’incantata voliera del suo Catalogue d’oiseaux. Principe capriccioso del profondo sud, là dove le foreste sono impregnate del vento che viene dal mare e incontrano la roccia fiammante di Roussillon, presenza umbratile in una natura aspra e maestosa, tutta spigoli e profumi, echi e sinestesie, le traquet trovava, nell’iridescente tavolozza di sonorità estratte da una cordiera infinitamente duttile, il volo ardito che avverte la vertigine del precipizio, e la sfida. E, dall’abbraccio contemplativo, all’unisono con il respiro del creato, di Messiaen, il cielo del Debussy “estremo” di un grappolo di Études tratte dai due Livres virava verso linee progressivamente astratte, verso geometrie più misteriose, protese sul pulsare, sull’ondeggiare di inediti riverberi segreti dentro la quadratura di un telaio austero. Un incanto. Il pedale utilizzato come lente di precisione per catturare il fuoco dell’indagine, l’attimo, senza perdere di vista il fluire di un racconto da srotolare nella sua vivida, purissima bellezza di diamante: l’immateriale grazia dell’Étude pour les quartes, nel legatissimo del suo lieve batter d’ali; la sottile, impercettibile parodia di un gioco divertito sotto mentite spoglie seriose dell’Étude pour les degrés chromatiques; gli arabeschi volteggianti, in un tripudio di mezze tinte, mezze voci, vuoti di pedale come vuoti d’aria, dell’Étude pour les arpèges composés. In questi mondi scandagliati da Aimard con rigore cartesiano, corpo e mente dentro all’evento sonoro vissuto con la partecipazione dell’artefice e il disincanto dello scienziato, Boulez era già lì, sulla soglia, con le pietre ribollenti delle sue Douze notations, nella scarnificazione che fa, delle cose, emblemi, verità oggettuali elevate a divinità fossili, enigmatiche e dirompenti, e con la Sonata n°1, aperta da un gesto teatrale, vagamente barocco, e subito catapultata in uno spazio sonoro percorso dal brivido di un perpetuum mobile che custodisce, sotto la pelle, un canto lontano, ovattato, forse il canto di un volatile sfuggito alla voliera di Messiaen. Il conclusivo approdo al polittico dei Miroirs, anziché uno sguardo retrospettivo steso con pennino ancora intinto nella grana corposa di trame postimpressioniste, suonava anch’esso speculativo, affilato, pienamente, dichiaratamente novecentesco. Rapinoso, in levare, come a catturare il vento, senza estasi né scorciatoie, sulla stessa longitudine già percorsa nelle precedenti pagine. Le Noctuelles inquiete ed esatte nel loro fitto bisbiglio, il lamento desolato di Oiseaux tristes, destinato a rimanere sospeso, senza risposta. Il mare baluginante e scuro di Une barque sur l’océan, ma soprattutto, prima del quieto riecheggiare di La Vallée des cloches, le nude asprezze di Alborada del Gracioso, non razziata con la solita voracità da saraceni da tastiera ma, piuttosto, trattenuta in una atmosfera sospesa, selvatica e al tempo pudica che proiettava, sulla natura accecata dalla luce del Midi, l’ombra fugace, metafisica, delle visioni di De Chirico. Un viaggio della conoscenza. Memorabile, purtroppo per pochi.