Iván Fischer direttore di un memorabile Pelléas et Mélisande di Debussy

VICENZA Non elemento decorativo, o furbesca operazione di necessità, data la cornice che non ammette sovrapposizioni. Piuttosto, plastica manifestazione di una visione capace di cogliere nell’anima il senso profondo di una partitura. A Vicenza, il 27 e 29 ottobre scorsi, lo scenario mozzafiato del Teatro Olimpico ha ospitato due recite di un memorabile Pelléas et Mélisande di Debussy, con la doppia firma di Iván Fischer, direttore e demiurgo alla testa della sua Opera Company, e regista, in collaborazione con Marco Gandini. Di fronte al pubblico che assiepava ogni posto delle gradinate lignee, era un’orchestra-foresta, con i musicisti mimetizzati all’interno di un reticolo di rami e di foglie, voci nelle voci di un mondo arcano e lussureggiante, ombroso e terribile, in cui tutto è presenza, allusione, presagio. Un mondo in cui si muovono esseri perduti, senza passato, senza futuro, forse in cerca di un destino, forse disperatamente presi dallo sfuggirgli. Un intreccio indissolubile di estatica quanto austera carnalità che nella costrizione di uno spazio scenico asfittico, anziché mortificante vincolo, trovava la sua esaltante cifra: una visione in cui gli interpreti affioravano dal fitto di una natura abissale, dalle sue viscere, continuamente, perennemente avvolti dal suo incombere. La radura, il faro, la grotta, la torre, quest’ultima ottenuta con un magistrale gioco di pedane mobili che si rialzavano e si riabbassavano, erano emanazioni uguali e diverse della stessa irriducibile sospensione da ogni tempo e da ogni spazio, la materializzazione di un altrove senza alcuna possibilità di approdo. Un altrove fatto di fasci di luce sonora, armonie erranti, che Fischer attraversava con rigore scientifico, con passo solenne, sacerdotale, pescando, dal turgore della scrittura, la sua anima nordica, fredda, addirittura primitiva nella ruvida furia accecante di certi passaggi. In controluce, mai così chiaro, dal bosco debussiano, ad affiorare era la filigrana di modernità e di sperimentalismo, il farsi e disfarsi di maree sonore, l’implacabile montare del magma emotivo che sotterraneo cova, lambisce, minaccia, così come le nere acque del mare minacciano l’anello di Mélisande caduto (o gettato) nella grotta, durante un gioco con l’amato. Nella nebulosa vicenda di Pelléas et Mélisande, l’erotismo evocato da Fischer era non nelle sonorità vaporose e vagamente flou delle solite letture ma, piuttosto, nel cappio fatale che la tela musicale attorciglia, scena dopo scena, alla gola dei personaggi: dei due amanti mancati, ma anche di tutti gli altri. Nei silenzi reticenti di Geneviève, nelle allusioni di Arkel – profili sanguinanti di un realismo doloroso, nelle gigantesche interpretazioni di Yvonne Naef e Franz Josef Selig – nell’innocenza di Mélisande, che la voce flautata di Patricia Petibon accendeva di verginale, sfuggente fragilità, contrapposta al vitalismo ingenuo del Pelléas di Bernard Richter. Ma, soprattutto, nella cruda, umanissima, follia di Golaud, un Tassis Christoyannis tracimante nel declinare le controverse corde di un amore protettivo e patriarcale, dolce e barbarico, incapace di leggere, nell’amata, la complessità, il non detto. E, da ultimo, la cappa pesante di questo serpeggiare torbido di impulsi soffocati e sublimati calava anche sull’innocente Yniold, a cui il talento cristallino di Oliver Michael dava i tratti di una rara naturalezza. Una costellazione di monadi incapaci di interagire se non per sottrazione, per ellissi, come sottolineava il mormorio della foresta strumentale: il filo dei fagotti, il richiamo dei corni, l’alito freddo degli archi, chirurgici nello sferzare ghiacciato di una scrittura che può arrivare a bruciare. Un’esperienza immersiva in cui le quinte del teatro più bello del mondo erano scenario nello scenario, punto di fuga alla forza centripeta della buca-scena. Qui, in un procedere asciutto attraverso i flutti di fraseggi turbati, mossi, increspati, la conduzione di Fischer aveva lo sguardo saldo del capitano sullo specchio d’acqua da interrogare, come si fa con una presenza viva, palpitante, da risvegliare e da domare. Quando Geneviève indicava a Mélisande il mare, presenza fuori campo, l’orchestra veniva pervasa da un fremito violento, dardeggiante, ed ecco, da quell’altrove, provenire Pelléas, portatore di turbamento e di premonizione. Con rispetto, classe, forza impietosa, Fischer toglieva il velo al Pelléas e ce ne consegnava l’anima snudata. Con lo stesso impietoso rigore, scandagliava il malessere di Mélisande, senza scivoloni retorici, senza gratuiti psicologismi. Dal materiale sonoro lasciava affiorare lacerti, frammenti scomposti, disegnando il monumentale arco narrativo per scomposizione e riaggregazione, per reminiscenza, fino all’apparente rarefarsi degli ultimi frammenti, dopo il picco quasi espressionista che accompagna il fratricidio e, ancor prima, spinge Golaud a servirsi del piccolo Yniold, in una scena che non dimenticheremo, per carpire alla realtà uno straccio di evidenza che avvalori i suoi sospetti. Ma il mistero di Mélisande è meno banale di un adulterio, il suo tormento non ha casa né nemici, ma è in un cassetto di cui si è buttata via la chiave. Lui, il marito, non lo vede, non può vederlo. D’altronde, questa è una storia di cecità, di smarrimento, e di una felicità cercata ad occhi chiusi nel fondo dell’oceano. Tutto allora diventa un barcollare inquieto, un arrancare nel buio. Solo l’amore, quell’inconfessabile appartenenza del cuore di due destini fatti per cercarsi e per fuggirsi, è per sempre. Solo all’ammissione dell’amore l’orchestra tace, il mondo si ferma, stupefatto. Il sontuoso tappeto strumentale si raggela. Un istante dopo, l’iceberg si sfalderà sotto le picconate di Golaud. Pelléas morirà, e nella vicenda nessuno lo nominerà più. All’omicida mancherà il coraggio di rievocarlo, a lei, la moribonda amata che nel frattempo ha partorito, niente sembra ormai appartenere. Mélisande si spegne, conciliante, benedicente, come una candela che ha consumato la sua dose di cera. Portando con sé l’indicibile del suo segreto. 

Elide Bergamaschi