Michel Dalberto, signore di un pianismo squadernato

Michel Dalberto (foto gmp)

MANTOVA Qualcuno ancora c’è. Pochi, pochissimi artigiani di una musica che è per soli sarti e orefici, per superstiti maestri di bottega la cui sapienza incanta per ciò che è, senza il bisogno di aggiungere fronzoli al miracolo dell’opera costruita tassello per tassello. Michel Dalberto è certamente uno di questi, gran signore di un pianismo squadernato con sovrana autorevolezza, con quell’intimo senso di libertà che sa ogni volta ripulire, anche dalle pagine più usurate, la patina della maniera, della retorica, dell’affettata attesa del funambolico salto mortale. Per lui, la musica è un piacere da consumare e da condividere a fuoco lento, degustandone con aristocratica semplicità i sapori più remoti, quelli che solo un palato abituato ad esplorare al di fuori dalle rotte comuni sa individuare. Lo scorso 9 febbraio, chiamato all’ultimo a sostituire un indisposto Ronald Brautigam, il pianista francese faceva di nuovo tappa a Mantova, in una Sala delle Capriate gremita, dopo la fugace apparizione di qualche anno fa, al Festival di Trame Sonore. Noi lo ricordiamo, quasi 30 anni fa, inaugurare, a Casalmaggiore, il Fazioli gran coda che l’allora sindaco Massimo Araldi aveva voluto al Comunale, pietra angolare di quella straordinaria avventura, nata subito dopo, che sarebbe diventata l’International Festival. Quelle debussiane Images le ricordiamo ancora oggi nella lussureggiante bellezza dei colori, nel gusto per una ricerca affatto scontata, là nel fitto della materia sonora, a scandagliare le ombre, le luci, e il loro eterno contrappunto. Nella sala dell’ex monastero benedettino, ad attenderlo questa volta era un mezza coda (uno strumento più grande non avrebbe superato, per dimensioni, la prova delle scale, fino al primo piano della sala) forgiato nella prestigiosa fucina di Fabbrini, la cui plastica eccellenza veniva sollecitata, al limite delle sue risorse, dall’incalzare dell’interprete. Un incalzare di piani dinamici – un’escursione da pianissimi sempre rotondi a fortissimi sinfonici, carnali – che l’ascoltatore trovava già a cospetto del trittico, di chopiniana ascendenza, tratto dal prediletto Fauré: l’Impromptu op. 34 in La bemolle maggiore, e i due Notturni op.63 e op.119. Poche note, e subito lo spalancarsi, immensamente profumato, insinuante, sinestetico, di un mondo sonoro; un acquario di riflessi, un gioco di rifrazioni, barbagli, assecondato con eleganza d’altri tempi. Frasi segretamente mosse dall’impercettibile irrequietezza di piani sovrapposti, di armonie sfaldate, fascinosamente decomposte. Fraseggi condotti là dove la frase si spegne e dove, sott’acqua, un’altra sta per riaffiorare, in una tensione narrativa che, pur nel sottile gusto per il dettaglio, mai smarriva la bussola. Attraverso un legato assoluto, nel cuore del tasto, Dalberto cuciva ad arte i fotogrammi di una Francia segreta e tracimante, nel disegno intimo di questi brevi scorci in cui tutto è insieme crepuscolare e fatale, intinto nel turgido inchiostro di un romanticismo ormai morente e già abitato dal senso incombente di più ermetiche visioni. In questo Fauré, tutto era sublime esercizio di fantasia; una fantasia misurata e sobria, ancorata al progetto, immensamente tentata dall’avventurosa esplorazione di terre vergini, e, con esse, dalle sirene di una bellezza libera, scapricciata, senza tempo. Un approccio che, per certi versi, ricordava il troppo presto compianto Samson François, bruciato da una vitalità che ne ha morso i giorni, anche lui proteso a testa alta sulla frase, anche lui padrone di legati da alchimista, vellutati e marmorei al tempo, così plastici da farsi parola, vocalizzo, nota per nota, capaci di guardare, senza svelarli appieno, agli abissi. Allo stesso modo, con un’angolazione che, all’ingenua meraviglia, preferiva un’adulta, virile stupefazione, Dalberto si addentrava nel bosco schumanniano dei Phantasiestücke op.12, invitando a cogliere, già dall’ondeggiante sospensione di Des Abends, il senso più riposto della sera schumanniana, una sera della vita, decantata con una sobrietà non tesa (cioè, in attesa) al miracolo, ma ferma nel qui e ora della sua fragile, trepidante bellezza. Tutto suonava, e risuonava, al presente: poche rare concessioni alla nostalgia, poche illusioni verso il domani. Tutta la forza della visione di Dalberto stava in uno statuario presente indicativo, nella sua rosa di istanti levigati dalle impurità della fretta. Ruvido, ma senza quel graffio selvaggio che spesso lo accompagna, giungeva Aufschwung, così come la struggente Warum? trovava, nei suoi interstizi, la dilatazione scarna, senza patetismi, degli interrogativi brucianti. Era qui, a nostro avviso, la chiave dell’idea di fantastico per Dalberto. Una fantasia governata dalla sottrazione, dal garbo di linee purissime, dall’autenticità affidata alla concretezza del canto, ad una sensoriale sensualità. La stessa che si ritrovava nell’affresco centrale di In der Nacht e, poi, prima del conclusivo Ende vom Lied, nell’opalescente Fabel e, soprattutto, in Traumes Wirren, risolto – non senza qualche sbavatura – più dall’alto che dall’interno, temperando la sovreccitata gestualità di svolazzi e onomatopee trattati, appunto, come sogni, miraggi a cui guadare con divertita disillusione. Un pianismo introverso, nobilmente edonista, cόlto senza saccenza che, quando si riversava nella schubertiana Sonata D 959, ne solcava l’infinita distesa senza indulgenze e senza rimpianti, con la fermezza asciutta e dolorosa che è delle ultime parole. Anche il respiro monumentale dell’architettura, senza rompersi mai, veniva sottilmente scheggiato da quel procedere ad oltranza, senza dare retta all’ossessiva irruzione di ricordi, memorie, rancori, di un autentico cuore in inverno. L’Andantino centrale, nel magistero di un pedale che ne lasciava nudo il malcerto filo del canto, era uno sguardo sulla desolata immobilità dei giorni, una stanca quanto incrollabile traversata, controvento, nel tentativo di trovare un senso alla vanità delle cose. L’accenno di un sorriso, nello Scherzo, prima di imboccare l’ultimo tratto del sentiero: il Rondò, allegretto, congedo dolceamaro che un fraseggio minuziosissimo, a sbalzare gli ultimi sprazzi di residua vitalità, gli ultimi desideri, elevava a straordinaria lezione di classe. Applausi, ricambiati da un altro Schubert: un amabile Lied tratto dal ciclo Die schὂne Müllerin, a cui la trascrizione di Rachmaninov aggiungeva il gusto di note speziate.
elide bergamaschi