Uccise la suocera sgozzandola, carcere a vita per Enrico Zenatti

MANTOVA Ergastolo, aggravato dalla sanzione accessoria dell’isolamento diurno per 9 mesi, oltre all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, alla perdita della potestà genitoriale e al riconoscimento di un risarcimento del danno in favore delle due parti civili fissato, in via equitativa e definitiva, in 400mila euro ciascuna. Dopo oltre tre ore di camera di consiglio, ieri sera, la Corte d’Assise di Mantova si è così espressa nei confronti di Enrico Zenatti, il 55enne veronese finito alla sbarra per l’assassinio della suocera Anna Turina, 73 anni, uccisa nella propria abitazione il 9 dicembre 2021 a Malavicina di Roverbella. Un verdetto che di fatto ha confermato in toto l’impianto accusatorio impostato in requisitoria dal pubblico ministero Giulio Tamburini e specificatamente constato nella richiesta di derubricazione del capo d’accusa relativo al tentato omicidio, riqualificato nella fattispecie disciplinata dall’articolo 583 quinquies del codice penale, vale a dire deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso. In tale caso di specie il riferimento era relativo alla lesione, non mortale, di 37 centimetri di lunghezza rinvenuta al capo dell’anziana e che, secondo i riscontri medico-legali addotti all’istruttoria dal consulente del Pm, sarebbe stata perpetrata ai danni della vittima causa incisione da arma bianca al nervo vago, con conseguente ampio scollamento del cuoio capelluto dalla teca cranica tramite trazione dello stesso. Fermo sempre restando, nel novero delle varie contestazioni, l’aggravante da ergastolo del cosiddetto nesso teleologico tra i due reati ritenuti in continuazione tra loro – con il secondo, relativo all’omicidio volontario, prevalente sul primo – oltre all’ulteriore aggravante da ergastolo della crudeltà. Altre aggravanti addebitategli, non da carcere a vita però, quelle concernenti il rapporto di affinità in linea retta e l’aver approfittato di circostanze di luogo (l’ambiente domestico) e di persona (l’età avanzata della persona offesa) tali da ostacolare la difesa della vittima. Di contro, improntata a smontare tale quadro accusatorio l’articolata arringa difensiva degli avvocati Silvia Salvato e Andrea Pongiluppi. In sostanza, facendo leva sulla mera indiziarietà del processo, la tesi dei legali di Zenatti si è incentrata nella mancata prova certa, appurante la responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio dell’imputato in merito ad entrambi i capi d’accusa a lui ascritti in origine, vale a dire il tentato omicidio e l’omicidio volontario; totale assenza di elementi probanti rispettivamente circa l’effettiva sussistenza e commissione del fatto per mano dello stesso accusato. In sostanza, stando alla sentenza, al culmine di una lite, Zenatti, risalendo le scale dopo essere stati insieme in cantina a prendere una bottiglia per farne un addobbo natalizio, avrebbe assalito la suocera da dietro, colpendola alla testa con un’arma bianca. Convinto quindi di averla ammazzata, stante la temporanea perdita di conoscenza della pensionata, l’avrebbe così lasciata in un lago di sangue sul pianerottolo tra le due rampe, abbandonando la scena del crimine e cercando infine di crearsi un alibi. Salvo poi, ritornarvi dopo circa un’ora in quanto avvisato dalla moglie che la suocera, nel frattempo ripresasi, sarebbe rimasta ferita cadendo accidentalmente dalle scale. Così, giunto nell’abitazione prima dell’arrivo del 118 e fatti allontanare i figli della vittima (il cognato Paolo Savoia invitato ad andare ad avvisare nuovamente i soccorsi perché “lì dentro il telefono non prendeva” e la coniuge Mara Savoia – parte civile assieme al fratello – sollecitata ad andare in bagno a prendere asciugamani per poter tamponare la ferita al capo della madre, rimanendo di fatto solo con lei), finendo il “lavoro” infliggendole in una manciata di secondi sei profondi tagli interni (cosiddette codette) da lama sul collo. Solo in seguito si sarebbe allontanato in auto per andare a chiudere il proprio negozio e nel frattempo sbarazzarsi dell’arma del delitto, un coltello dalla lama affilata e non seghettata facilmente occultabile, mai però ritrovato.