Al Ponchielli riecco Don Carlo

CREMONA Riecco Don Carlo. Riecco il suo profilo sfuggente, tormentato; la sua figura irrisolta di figlio incompreso, di amante mancato, di futuro sovrano senza la giusta stoffa di cinismo e di ambizione. È questo il titolo che, in questi mesi, sembra andare per la maggiore nei cartelloni italiani. Versioni diverse, tutte ricche di spunti utili per approcciarsi ad un titolo tanto affascinante quanto ostico, per dimensioni e densità. Monumentale, quella del filone emiliano che ha recentemente attraversato le città di Modena e di Piacenza, con epilogo romagnolo a Rimini, e punteggiata da un cast di eccellenze: Anna Pirozzi, al debutto nel ruolo di Elisabetta, la Eboli svettante di Teresa Romano, ma soprattutto un memorabile Michele Pertusi che, il prossimo 7 dicembre, vestirà di nuovo i panni di un Filippo II, questa volta, all’attesa Prima milanese del Teatro La Scala. Meno altisonante ma non meno interessante quella che, in queste settimane, corre sul binario dei teatri di provincia del Circuito Lombardo. Lo scorso week end, la fermata è stata al Grande di Brescia, dopo la tappa di fine novembre al Ponchielli di Cremona. Qui, l’acuta regia di Andrea Bernard traspone in una sapiente traslazione in cui tutto cambia e nulla cambia, la Spagna profonda della seconda metà del XVI secolo in un asfittico interno borghese anni ‘60: geometrie asciutte, molto legno, tutto impeccabile, a tentare invano di scaldare un’atmosfera che non riesce a levarsi il suo alone inquietante. Complice il coro, presenze fantoccio affacciate da una tribuna, giudicanti e lontane, complice quel banco, arenato ai margini dell’inquadratura, troppo simile ad un tribunale per rassicurare, e quell’enorme disco volteggiante che, lampadario o impietoso occhio indagatore, incombe sul destino della corte. Atmosfere pulite, razionali, anaffettive, nel cui rigore cova in realtà una disobbedienza sorda, grigia, nascosta sotto cappotti maschili e tailleurs di lana grossa, rabbia rivendicata in rabbiosi volantini lanciati furtivamente, o incollati, con la benedizione silenziosa di uno sguardo complice, a qualche muro. Perché sotto un simile cielo in cui tutto è scoperto, tutto è svelato, nessuna libertà è possibile, così come nessuna scelta. È l’inquisizione vista dalla lente di Orwell, ma anche quella che guarda all’opprimente morsa di un’imprecisata Stasi. Occhi e orecchie pervasive, invincibili, nello stretto giro di compasso di una vicenda che qui non esce mai dalle pareti di una stanza. In questo perimetro Filippo convoca il Grande Inquisitore, un perentorio Mattia Denti che la regia mette in carrozzina, con un principio di Parkinson ad alterarne i gesti e le cannule dell’ossigeno al naso, ma la cui autorevolezza sgorga incontestabile, nella solidità sempre morbida di un canto lapidario, granitico anche nelle zone più profonde. Da qui, Don Carlo, minuziosamente stagliato da un talentuoso Paride Cataldo, scruta il cielo con un cannocchiale, quando la Eboli di Laura Verrecchia – sanguigna e giustamente ardimentosa, al netto di qualche spigolo ancora troppo vivo e di qualche difformità nella gestione dei piani sonori – lo sorprende e lo smaschera nell’amore proibito che lo lega a quella che un tempo era stata la sua promessa sposa, ma che il disegno della storia ha reso la sua matrigna. Il potere della principessa è nelle vertiginose saettate di appassionato rancore con cui Verdi la scolpisce; ma Bernard osa di più, e sotto il proverbiale occhio bendato ne scopre i segni di una recente violenza, i lividi e il sangue non ancora del tutto rappreso che raccontano un sopruso. Lei, come le altre donne che si aggirano a corte, oggetti anonimi di un piacere da depredare senza consenso da parte degli sgherri del re, ma anche bersagli indifesi di una rabbia che esplode, gratuita, improvvisa, barbarica. In questi giorni incupiti da cronache agghiaccianti in cui, ricorsivamente, sembra ripetersi lo stesso tragico copione, non si può rimanere indifferenti a queste scene che denunciano un’umanità evidentemente senza tempo, persa nel perpetuare l’amore come conquista e usurpazione di un territorio, oltraggio e sfregio ad un’intimità. Anche questo è potere. Ma il potere è esplicitato anche dalle pellicce che Elisabetta – una Clarissa Costanzo duttile e molto interessante nella zona centrale, ai limiti del suo strumento nella zona acuta ma, nel complesso, efficace nel dare spessore e realismo all’impervia vocalità del personaggio – veste con mestizia camuffata da alterigia, e dagli abiti di taglio sartoriale di Filippo II, un Carlo Lepore di magnifica sicurezza che dava al suo sovrano le doppie corde della tracotanza e dell’amarezza, in un oscillare nel quale, anche quando sconfitto, nella solitudine della sua stanza qui risolta in un lussuoso salotto con vetrate a parete, ampi divani in pelle e generose sorsate di whisky tracannato per annegare i dispiaceri, non intende levarsi di dosso quei tratti padronali, dispotici, dietro cui ha imparato a schermarsi. A torreggiare, ancora una volta, discanto limpido e franco a questo mondo oscuro e avaro di luce, in cui ognuno è esistenza a sé, pianeta freddo destinato solo ad eclissarsi, è il Rodrigo cesellato da un Angelo Veccia sempre nobile, nel disegnare la linea del canto, nell’esplorare e tingere ogni parola, nell’incarnare con intelligenza il detto e il non detto, così come il muoversi in scena, lasciando trasparire, del suo Marchese di Posa, non solo la valorosa scorza ma anche i più riposti pensieri. Tra i personaggi secondari, un applauso particolare ai prigionieri protestanti condannati all’autodafé, magistrali per puntualità ed efficacia. In buca, a guidare l’Orchestra de I Pomeriggi Musicali, è il giovane Jacopo Brusa, capace di governare i poderosi tiranti della complessa scrittura verdiana ma non altrettanto coraggioso nell’attraversarne le molte zone d’ombra per cercarne i misteri. La sua lettura, spiccia e sferzante, ha tempi efficaci per la macchina scenica ma risulta troppo quadrata per dare il giusto volume alle ampie arcate di frase, stanandone i continui trapassi, i dubbi, il senso di fatalismo che pervade l’intera opera. Allo stesso modo, solo accennata è la ricerca della giusta tinta, quell’inesorabile cappa di notte che si dilata sulle tre ore di musica per levarsi solo raramente, in quei refoli che, lungi dall’essere luci di un’alba, sono fuochi di un rogo.
Elide Bergamaschi