Il Premio “Rino Bulbarelli”. Gli anni belli dei grandi maestri

MANTOVA Premio Rino Bulbarelli. Cerimonia alla Postumia di Gazoldo degli Ippoliti. Tanta gente tanti ricordi. Suona bene. Se lo merita “il Rino” che sia intitolato a lui un Premio giornalistico e bene hanno fatto i vertici della Voce di Mantova, il direttore Alessio Tarpini e l’ex direttore e ora principe dei notisti Davide Mattellini, che ben ha conosciuto Rino, a fondare questo Premio. Ero tentato di pensare ad un titolo come Premio Rino Bulbarelli e quei grandi maestri di giornalismo. Ma non sarebbe stato giusto. Rino è stato, nel gruppo di quegli eroi degli anni Settanta,  un gran maestro di vita. Col giornalismo. Lo stile, la comprensione, la commozione, non dimenticherò mai quegli occhi lucidi quella mattina del cambio di direzione, e poi l’entusiasmo per una notizia o una visita in redazione, la totalità di una missione. Vita dunque, non solo un mestiere. Rino era tante cose, come ha ben scritto su questo giornale la figlia Paola Bulberelli, collega e grande amica,  ma prima di tutto era la sua vocazione che coincideva col suo mestiere di giornalista che esercitava ovviamente 24 ore al giorno, se avesse potuto anche 26.

Lo faceva in via Fratelli Bandiera prima alla Gazzetta, poi in piazza Sordello alla Voce, ma lo faceva già da tecnico della Citem, la Cooperativa di giornalisti, tipografi operai e impiegati che era la società editrice della Gazzetta fino al salto industriale del 1981 con Mondadori. Onore di essere stato anche io Citem, anche solo per pochi mesi.

Che anni quegli anni, e devo dire che per fortuna c’ero. C’ero già. Tra i maestri di via Fratelli Bandiera, la culla del giornalismo mantovano e non solo.

L’altro giorno Paolo Boldrini, amico e collega dagli anni Ottanta, già direttore della Nuova Ferrara e della Gazzetta di Mantova mi ha ricordato quanto Rino Bulbarelli mi stimasse e mi volesse perfino bene, e che aveva capito la mia “scelta romana” ma in fondo in fondo provava sempre a farmi tornare nei suoi giornali. Volle da subito un mio pezzo settimanale come contributo fisso. Mi ricordano anche che quando un direttore di una provincia contestò la scelta del mio editoriale in seconda pagina per tutte le edizioni, Rino che era il capo di tutto prima come amministratore delegato e poi presidente delle Gazzette e direttore della Gazzetta di Mantova, sostituì quel direttore e tenne il mio articolo. Mica poco.

Ho conosciuto Rino nel 1979, finivo il liceo. Era condirettore. Voleva capire se i miei pezzi dalla provincia erano veramente miei o come dicevano in giro, giusto per aiutarmi, che me li scriveva il prete. Povero Don Dualco, aveva ben altro da fare che pensare ai giornali. La prima volta mi provò senza preavviso. L’ho già detto e scritto, ma è una frase che mi porterò dentro tutta la vita: “sentat lì e scrivi”. Siediti lì e scrivi. Senza google, senza computer, senza telefonini, senza dekstop, senza tastiere automatiche, senza rete: un foglio, una macchina per scrivere, due mani tre quattro dita, a volte solo due, una testa. E soprattutto una grande passione: cercare, capire, raccontare. In una parola: giornalismo. Gli piacque molto quel corsivino incorniciato quando il giornale era ancora a nove colonne e lungo lungo, dedicato al mistero del Pievano, un sacerdote della Diocesi di Mantova che con un nom de plume  scriveva e commentava di arte, cultura e antropologia mantovana. Piacque a Rino quel corsivino in cui durante gli incontri della Settimana Pastorale in Seminario Vescovile descrivevo sguardi e pezzi di dialogo, battute e sussurri sull’identità del Pievano “E’ uno di noi!!!”. “Chissà forse è don…”. Una specie di dietro le quinte ante litteram. Adesso il giornalismo fa tanto racconto dietro le quinte.

Un giorno Blob di Rai3 ha mandato in onda un pezzetto di un Tg1 del 1989 condotto da me con immagini di manifestazioni e proteste che avrebbero da lì a poco portato alla caduta del Muro di Berlino. 34 anni, mamma mia. Titoletto del Blob “tempo scaduto”. Un mio amico della Regione Emilia-Romagna Gianfranco Coda ha rincarato la dose mandandomi un sms così: “Ti ho visto su Blob, con ciuffo e capelli lunghi. Se non avessero messo il nome non ti avrei mai riconosciuto”.  Grazie molte.

L’episodio mi ha confermato che non sono più un pivello del mestiere e nemmeno della vita. C’ero quando è caduto il Muro di Berlino e adesso i neonati di allora sono padri, madri, professionisti magari famosi, e c’ero anche nella prima Guerra del Golfo e infatti Benedetta (figlia prof) mi prende in giro dicendomi: raccontavi cose al Tg che adesso studiamo nei libri di storia. Ed eri nei VHS. Grazie Bene, sei carina. E sono passati più di vent’anni dalla caduta nel fiume di Linea Verde, che tanto Paperissima e altre trasmissioni specializzate in gaffes hanno spesso mandato in onda tranquillamente. Oltre al diritto alla memoria andrebbe invocato anche il diritto all’oblìo. Ma tant’è. C’è di peggio.

L’esercizio della memoria non è finito lì. Quando ho scoperto che il mio primo giornale in cui ho lavorato si era trasferito da Via Fratelli Bandiera 32 Mantova a piazza Cesare Mozzarelli, sempre Mantova ovviamente, ma zona piazzale di Porta Cerese, Stadio mi è venuto un colpo al cuore. Quasi una rapina dei ricordi. Ma come, il giornale non è più lì dove per me era sempre stato e sempre doveva dovuto stare. Eppure. Via Fratelli Bandiera 32, anno 1979, ebbene sì. Prima collaborazione alla Gazzetta allora Cooperativa Citem, allora unico quotidiano di Mantova e provincia, allora a nove colonne, allora a piombo, allora diretto da Giancarlo Eramo e condiretto da Rino Bulbarelli. Via Fratelli Bandiera 32 era un condominio con cortile interno e per me era semplicemente la redazione del giornale. Uno stanzone per la cronaca dove non c’erano nemmeno le scrivanie per tutti, e il primo che arrivava scriveva, gli altri si mettevano in coda. Non 20 righe, lenzuolate. Tre.. quattro cartelle, altro che i dieci moduli di adesso. E hai voglia a spremere la fantasia. Appena dentro a sinistra la segretaria di redazione Fiorenza Taddei, nello stanzino più lungo che largo il giovane Werther Gorni che per la pagina dell’arte ospitava nello strapuntino la Savoia, Maria Grazia. Nello stanzone Carlo Accorsi non ancora caposervizio, e poi Luciano Spagna, Alberto Gazzoli e il prolifico Umbertone Bonafini. Di là Piero Marcolini, Diego Eramo, Cesare De Agostini e Mario Cattafesta. Ogni tanto appariva l’ex direttore Giuseppe Amadei, un gentiluomo d’altri tempi, che portava la sua rubrica di prima pagina, la “Bottega del caffè”. Ero vorace di quelle letture. Mi colpiva quella sapiente scrittura, con parole uniche, proprio quelle che dovevano stare in quel posto. Un giorno Giuseppe Amadei mi incrociò e mi disse :”Leggo i suoi pezzi”.. Sentirmi dare del Lei da un direttore di giornale come lui mi faceva sentire lusingato e imbarazzato nel contempo. “Secondo me lei Binacchi ha il bastone da direttore”, mi disse. I luoghi fanno memoria. Via Fratelli Bandiera era la mia immagine di redazione di giornale e anche se poi avrei visto le redazioni del Pais o del Times o del Tg1 o di France3 quella era la mia redazione della memoria. Ineluttabile Watson. Una notte ero ancora in prova come collaboratore e affiancavo Paolo Ruberti (un mito) nella chiusura del giornale. Ancora a nove colonne, ancora a piombo. Lui Ruberti scriveva le lenzuolate di un processo per il giorno dopo, che tanto non scadeva e io passavo pezzi per le pagine della provincia. Il proto citofonò dalla tipografia e andai. L’accoglienza fu così simpatica e rude. “Oh Binak la v… t’ha fat, ag manca na culòna e mes in quarta”. Ci manca una colonna e mezzo in quarta. Tradotto. La prima di cronaca. Torno da Ruberti e riporto fedelmente il messaggio, senza ripetere il saluto iniziale tipicamente mantovano. E Ruberti: “Non ti preoccupare, Dio vede Dio provvede”. Dopo dieci minuti squilla il telefono. “Qui Polizia stradale, due morti sulla Brennero”. Guardai allibito Paolino Ruberti e lui con gli occhietti vispi mi spronò’: “Visto, adesso chiudiamo la cronaca”. Pensai di essere capitato tra maghi e matti. Ma scoprii, quella notte, che era la mia vita.