E le nonne si vestivano a festa per il pellegrinaggio alle Grazie

MANTOVA Eccoci nei giorni delle Grazie, giorni speciali che annunciano la Festa dell’Assunta. Il cuore d’agosto che per il mondo è semplicemente Ferragosto, tra vacanze e viaggi, mari e montagne, qui da noi è un Ferragosto speciale che dura più giorni e coinvolge mente e anima, spirito e gusto, diverse generazioni e tante abitudini. Alle Grazie, ovviamente, si viene e si va in pellegrinaggio tutto l’anno ma nel mese di maggio, il mese mariano per elezione, il mese del rosario, ancora di più pellegrinaggio. E le nonne si vestivano a festa, come nelle occasioni importanti, come per le cerimonie speciali. E mi ricordo quelle volte in cui si andava in pellegrinaggio per il rosario o per il raduno della festa del malato, che mi raccontava mia bisnonna Margherita. Classe 1885, una roccia. Era una abitudine, o meglio un rito collettivo. Chiudere il mese di maggio, o punteggiare una tappa nell’ultima decade, con un pellegrinaggio alle Grazie. Magari anche in un solo pomeriggio, cinque ore in cui ci stavano la preparazione, il rosario, la messa, la compera dei ricordini, rosari, crocifissi da tavolo e da muro, libretti e santini e poi il giro in riva al Lago. Un classico. In corriera per i gruppi numerosi con anziane e anziani senza macchina. e in automobile per le famiglie e più giovani. Da tanti paesi si faceva una gita pellegrinaggio e si facevano i turni per dir messa al Santuario, doveva essere una messa di chiusura del mese mariano ma capitava che non essendoci posto negli ultimi giorni si facesse una chiusura anche al 25 e poi gli altri giorni si ricominciava col rosario nella chiesa di paese. Andava così. Le nonne si vestivano a festa, come la domenica, come nel giorno del Patrono o della Patrona. “Andom a li Gracii”, espressione di viaggio religioso e di adesione spirituale. Un appuntamento atteso da un anno all’altro. Maggio era anche questo. Bastava un pomeriggio, partenza davanti alla chiesa, quella mia dedicata a San Michele Arcangelo, l’arciprete invitava a salire, svelte-svelte che partiamo, e poi ovviamente alla seconda curva rosario fino agli Angeli; come si può notare eran tutte tappe geografiche e toponomastiche più o meno casualmente segnate da nomi religiosi. Discesa delle pellegrine e dei pellegrini nel grande piazzale del Santuario dove ancora si poteva entrare senza limitazioni di targhe o di traffico e raduno sotto il porticato, è il caso di dire, in religioso silenzio. Che atmosfera di intimità e di festa, ricordo. Molte signore e nonne portavano la veletta, il copricapo solitamente nero a ricamo e pizzo in segno di rispetto e devozione per il luogo di culto. Nella chiesa c’era fresco e subito si alzava lo sguardo per controllare se il coccodrillo impagliato fosse ancora lì. Chi aveva bisogno poteva andare a confessarsi là nella cappella delle confessioni e ognuno cominciava un proprio rito di penitenza e raccoglimento. La preparazione. Una lama di luce colpiva qua e là le statue e le pareti. Ogni tanto si sentiva una porta chiudersi e un bisbiglio di preghiere, in attesa dell’orario della Santa Messa, la Santa Messa di chiusura del mese di maggio. Don Dualco Giuliani, per tutti solo don-Dualco tutto-attaccato, con la sua voce possente e la postura da don Camillo, invitava a mettersi nei primi banchi e a fare silenzio. Si obbediva senza tante esitazioni. Paramenti, preghiera di ingresso e si cominciava. Risuonavano, anche senza organo e chitarre, melodie armoniose di omaggio alla Madonna prodotte dalle sole voci delle signore e dei pochi signori. A volte vien da dire che basta una voce religiosa per fare un canto gradito lassù. I complessi sono, sarebbero, per altri luoghi. “Dai sei vecchio, non fare il passatista”, mi dice mia figlia. Sarà, ma io mi commuovevo anche alla sola voce della signora Luigina che intonava “Bèèella tu seei qual soole….” o “Dall’auroora tu sorgi più bella…” .

Le preghiere e i canti risuonavano in ogni dove, fin nel chiostro e sembrava che tutto il borgo partecipasse al nostro rito. E mi chiedevo chissà se anche gli abitanti delle Grazie fanno un pellegrinaggio alle Grazie. E poi mi rispondevo che forse no loro ce l’avevano in casa e magari andavano in qualche altro santuario perché se devi fare un pellegrinaggio almeno qualche chilometro lo devi percorrere. Forse. Poi ci sono anche i pellegrinaggi interiori e quelli spesso sono più complicati. E sono cresciuto con questi interrogativi, direte voi marginali, ma per me importanti, sul dove andassero gli abitanti di un borgo per fare pellegrinaggio essendo loro stessi meta di pellegrini.

Finita la messa, il popolo delle signore usciva sul sagrato passando dalla sala dei ricordini, quante statuette, quanti santini, quanti rosari per i nipoti, per la nuora, per il marito malato che era rimasto a casa. Passando nel chiostro lo sguardo andava al giardino centrale e un’occhiata alle volte e al cielo e se il tempo lo permetteva, ma il tempo delle Grazie lo permetteva quasi sempre, s’andava giù giù al lago, sulla sponda del lago superiore per fare una mini scampagnata adatta per il gruppo. Era una specie di processione post messa quella della comitiva che scendeva per lo stradello non lungo ma paesaggistico verso la sponda del lago ora attrezzata con panchine e area sosta un tempo invece puramente naturale. E sentivi arrivare altri pullman con altre comitive che si apprestavano a fare la loro conclusione del mese di maggio.

Capitava che alcune parrocchie si unissero e allora con la chiesa piena piena come a Ferragosto ti sembrava di stare a Lourdes. Ammirati i fiori di lago e i caplas si tornava sul piazzale e a qualcuno magari era venuta voglia di merenda e ci si faceva fare un panino da una delle osterie lì attorno, pane e salame qualcuno azzardava anche pane e cotechino, proprio come a Ferragosto.

Le mamme e le nonne erano contente, il prete era soddisfatto, era felice persino l’autista. Eravamo contenti tutti per un pomeriggio sentito e diverso, uguale e differente ma intenso dentro come ognuno poteva avvertire. Forse è questo il segreto dell’equilibrio? Non servono centinaia di chilometri ma un passo dentro. Poi ognuno si regola il passo. Quando nel giugno del 1991 ho visto in tv la visita alle Grazie di Giovanni Paolo Secondo, con il vescovo Egidio Caporello, mi sembrava di stare lì. Da piccolo immaginavo le Grazie, non essendoci mai andato, sulla base del racconto di mia bisnonna Margherita, classe 1885, che non si perdeva una Giornata del malato. Anche se non era proprio malata. E quando alla sera tornava a casa cominciava a raccontarmi quello che era avvenuto: la messa, la benedizione dei malati sulle carrozzelle, il pranzo per tutti. Io fantasticavo. Ecco sul pranzo io chiedevo: ma nonna cosa vi hanno dato da mangiare. E lei: ma una minestra (chiamava minestra anche la pasta asciutta) e poi di secondo un quartino di pollo lesso. Nonna era una risparmiosa. Una volta mi portò a casa il quartino di pollo del pranzo della giornata del malato. E io l’ho mangiato per cena, sentendo il suo racconto.

Fabrizio Binacchi